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I contorni sbiaditi del sogno americano

“Una delle cose che amo di più di questa vita è che non c’è mai un addio definitivo. Sai, ho conosciuto centinaia di persone quaggiù e io non dico mai ‘addio per sempre’, dico solo ‘ci vediamo lungo la strada’. Ed è così. E che sia un mese, un anno, a volte più anni, le rivedo. E posso guardare la strada ed essere sicuro in cuor mio che rivedrò mio figlio, un giorno. Tu rivedrai Bo e potrete ricordare le vostre vite insieme allora”. Le parole pronunciate da Bob Wells in uno dei dialoghi più densi e significativi del film Nomadland (2021) toccano corde molto profonde e riescono a trasmettere emozioni contrastanti, da elaborare lentamente. Scritto, diretto e co-prodotto da Chloé Zhao, è ispirato al racconto d’inchiesta della giornalista Jessica Bruder, Nomadland: Surviving America in the Twenty-First Century, che ha raccolto le storie dei nomadi del terzo millennio in un viaggio on the road durato tre anni. Rivedere, a distanza di tempo, questo lungometraggio conferma la sua capacità di stimolare pensieri e riflessioni. La recessione economica iniziata nel 2007, in seguito alla crisi dei mutui subprime, e la precarietà provocata dalle logiche economiche contemporanee hanno infoltito notevolmente il numero di coloro che, senza lavoro e senza pensione, vivono a bordo di furgoni e roulottes, spostandosi lungo gli Stati Uniti alla ricerca di lavori stagionali. E quel numero continua a crescere, dopo gli effetti a catena dovuti alla pandemia, per necessità ma anche per ribellione verso la vita stanziale. Sempre più spesso, infatti, c’è chi decide di mollare tutto e partire o di continuare a lavorare ma farlo “in movimento”, grazie alla tecnologia digitale, spinto dalla curiosità, dalla fame di vita, dal desiderio di abbandonare ogni sovrastruttura e di smarrirsi nel mondo. Di essere, parafrasando Bruce Chatwin, perpetuum mobile.
In Nomadland, l’attenzione di Chloé Zhao è rivolta alle persone che vivono ai margini, quelle che non hanno avuto alternativa e che, da un giorno all’altro, sono state costrette a mettersi in viaggio per sopravvivere, diventando migranti.
Come nei suoi due precedenti lungometraggi, Songs My Brothers Taught Me e The Rider, la regista predilige attori non professionisti, custodi di stili di vita frugali, lontani dalla frenesia delle grandi metropoli. Sceglie di dare spazio agli invisibili, ricercando una verità emotiva che può scaturire solo dalla naturalezza e dalla semplicità. La narrazione drammatica si mescola alla vita reale nel lirismo spirituale di sterminati paesaggi avvolti dalla luce crepuscolare, in cui le figure si immergono e si perdono. Nomadland assume, a tratti, le caratteristiche di un documentario, essenziale, che scava in profondità, affidandosi alla voce e ai corpi degli stessi nomadi…